Il toscano Antonello Mennucci non è un “semplice” appassionato di succulente e tantomeno un “semplice” coltivatore wild. E’ un vero e proprio artista del landscaping, ossia della ricostruzione estetica e materica dell’habitat naturale in cui crescono cactus e piante succulente.
Guardate le sue fotografie e leggete questa intervista, in cui parla dettagliatamente del suo metodo, e sicuramente ne converrete con me. (…)
Antonello è archeologo, direttore di musei, esperto di ricerca, valorizzazione e comunicazione dei Beni Culturali. E’ interessato a tutti gli aspetti naturalistici e alla geologia. Di sé dice: “come le piante grasse, sono avvezzo alla resistenza”. Tra le varie cose, ha trovato il tempo per aprire su Facebook un gruppo di cactofili unico nel suo genere: Wild Grown And Succulent Plants.
Le foto a corredo di questa intervista, così come quelle nella gallery finale sono tutte di Antonello Mennucci e ritraggono sue piante e suoi lavori di ricostruzione dell’habitat
Il tuo approccio alla coltivazione è piuttosto rigoroso. Cosa significa per te coltivare wild?
Domandona! Da non saper come rispondere… Ci sono molti approcci e gradazioni, quasi tutti validi. Comunque per me significa avvicinarsi il più possibile all’habitat originario di ogni pianta, meglio se nel rispetto di esposizione, cicli vegetativi, irrigazioni ecc.
Da quanto tempo coltivi cactus e piante grasse?
Coltivo da fine anni Ottanta. Ho cominciato con le piante che aveva mia nonna. La svolta avvenne grazie a un librino stupido che le regalarono, ce l’ho ancora, “Coltivare in casa” si chiamava. Lì scoprii le diverse varietà e cominciai a cercarle.
Un giorno, finalmente, su una rivista mi imbattei nei tentativi di Andrea Cattabriga con gli Aztekium e con gli Ariocarpus… Mi si aprì un mondo davanti! Rapidamente reperii nella mia zona del gesso naturale e mi cimentai con un vasino minuscolo di Aztekium hintoni. Andò bene e provai con due ritteri. Tentai anche con Ariocarpus Scapharostrus cercando di ricostruire l’ambiente scaglioso. Ancora non capivo nulla però e usai un terreno sbagliato, a base di filladi e quarzo. Ci sono stati male per otto anni, fino al nuovo rinvaso in alberese, materiale fantastico molto vicino a quello del loro habitat. La scoperta dell’alberese avvenne in un momento diciamo di maturazione. In perfetta solitudine infatti mi chiedevo se tutto si potesse ridurre alle marne e al gesso, materiali divenuti rapidamente di moda tra i coltivatori di certe piante. Ero intanto entrato in contatto con collezionisti di mesembriantemacee, alcuni dei quali usavano quarzo e materiali silicei, e con altri amici, primo fra tutti Ivan Korzeniowski, grazie ai quali scoprii l’uso di terreni argillosi. Cominciai a testare più sistematicamente e ragionando di più. Verificando le carte geologiche della Toscana e della provincia di Siena in particolare mi resi conto di vivere in un paradiso, per quanto concerneva la varietà dei materiali e cominciai a cercare sul campo. L’alberese fu la prima scoperta, da lì non mi sono più fermato. In sostanza in Toscana manca solo il granito, presente solo nell’arcipelago.
Col tempo ho cominciato a tentare di riprodurre il più fedelmente possibile l’habitat originario di ogni pianta scoprendo che i mantra ripetuti dagli esperti non erano veri per nulla e spesso sbagliati, primo fra tutti quello sui così detti terreni “asfittici”. Personalmente uso moltissimi tipi diversi di terre argillose, alcune miste a pietrisco, ghiaie e sabbie, altre invece molto compatte. Mai avuto problemi di asfissia delle radici. Direi che l’argilla, ovviamente non quella da vasi o da mattoni, ma quella naturale, è uno dei componenti di base per molte delle mie piante centroamericane, e anche per qualche Lithops e per qualche altra africana. L’unico vero handicap che riscontro nell’uso dei terreni argillosi è la lentezza nell’assorbimento dell’acqua. Il problema non sussiste quando piove, ma richiede più tempo negli interventi di irrigazione.
Allo stesso tempo, però, le piante coltivate su questo genere di materiali sopportano quantità d’acqua spropositate senza problema alcuno. In tutto questo, fondamentale è la vita all’aria aperta delle piante, almeno da aprile a ottobre, ma le mie sono arrivate anche ai primi di novembre a seconda delle annate. Molti dei rischi tradizionali quali funghi e altre patologie e parassiti tendono a scomparire con questo metodo di coltivazione, che tende a far assumere alle piante un aspetto più naturale e certamente una maggiore robustezza. Io praticamente non uso concimi, insetticidi e altri prodotti chimici. Mi limito a combattere isolati attacchi di cocciniglia, quando capita, guarda caso sempre sulle piante tenute più a lungo in serra, ma comunque è raro.
Come ti documenti sulla composizione dei suoli e come procedi nella ricerca dei materiali?Per capire la natura dei suoli originari mi avvalgo della rete. Se si conosce la località di provenienza di una pianta basta digitarla su un motore di ricerca unita al termine geologia o geology. Poi basta avere la pazienza di leggere. Certo, in questo gioco un minimo di conoscenze geologiche servono, altrimenti orientarsi è dura. Fatto questo ci si può rivolgere al territorio che ci circonda, magari facendo ricorso preventivo alle carte geologiche, quasi sempre reperibili in rete. Ovviamente chi vive in territori connotati da forte variabilità geologica è fortunato, gli altri meno.
Sei un artista nel landscaping, nella ricostruzione di angoli di habitat in vaso. Diciamo che hai una pianta che vuoi ambientare: come ti muovi?
Ricreare l’ambiente di una pianta discende da quanto detto sopra. Senza quella base di partenza non si comincia neanche. Una volta reperiti i materiali giusti il resto è facile… basta rinvasare. Altra cosa è conferire all’insieme un aspetto reale e “vissuto”. Intanto consiglio sempre l’osservazione attenta dei luoghi originari, partendo dalla morfologia delle pietre (più arrotondate, più spigolose) e dalla loro densità e disposizione. Non ci può essere modello migliore. Un accorgimento che ormai accompagna quasi tutti i miei vasi è la selezione delle pietre da disporre in superficie.
Quando raccolgo faccio attenzione a separarle dal resto, scegliendo quelle incrostate di licheni e anche di muschi. Ecco, i licheni sulle pietre superficiali sono un qualcosa che conferisce all’insieme un’aria di realtà immediatamente convincente, contribuendo anche alla formazione di crosta biologica in tempi ragionevoli. Consiglio anche di usare vasi grandi, decisamente sovradimensionati, sia per dare spazio alla pianta, sia per dilatare il più possibile la cadenza dei rinvasi. Tanto con questi materiali tutti i motivi che ne sconsigliavano l’uso vengono a cadere uno a uno. Un altro problema è ricreare scarpate. Per questi casi ricorro a vasi bassi e ampi, tipo seminiere o vasoni da bonsai. La profondità conta poco infatti, dato che il grosso del materiale si erge oltre il bordo del vaso. Di solito porto il vaso direttamente sul luogo di prelievo, le piante invece le posiziono a casa. Anche in quel caso scegliere materiali con licheni e croste biologiche aiuta: le loro radici tengono insieme la superficie riducendo anche il dilavamento. Ma tutto questo è difficile da spiegare a parole, sarebbe più semplice coi fatti.
Che generi di piante si prestano meglio alla ricostruzione dell’habitat, a tuo avviso?
Tutte le piante si prestano alla coltivazione selvaggia. Se però si vogliono ottenere risultati credibili in toto, meglio le piccole. Prova ad ambientare una Carnegeia gigantea completa di sfondo!
Parlami di qualche tuo esperimento e di come sta andando.
Ogni tentativo wild è stato un esperimento. Solo ora si cominciano ad avere esperienze consolidate dalle quali trarre qualche conclusione. Francamente non saprei scegliere. Ho Ariocarpus fissuratus e altre piante su terreno argilloso fuori anche in inverno (qua si arriva serenamente a -12), solo riparate dall’acqua. Ho qualche pianta libera qua e là nel selvaggio, senza annaffiature estive e col freddo, la pioggia e la neve in inverno. Tutte cose che paiono contraddire le regole fissate, regole che però si dimostrano valide solo per la coltivazione tradizionale e non per quella selvaggia. Per dirne una mi è capitato di avere Ariocarpus bagnati in pieno inverno o di bagnarne alcuni subito dopo il rinvaso invernale (la terra polverosa e da compattare non mi piaceva). Non è mai successo nulla di negativo.
Sei amministratore e fondatore di un gruppo su Facebook che sin dal titolo la dice lunga: “Wild Grown Cactus And Succulent Plants”. Come è nato questo gruppo, da quali idee è partito e con quali intenzioni.
Confesso che il gruppo Wild Grown è stata una mia idea. Dopo i primi tentativi più studiati e ragionamenti in solitudine sentivo il bisogno di confrontarmi con altri. Mi contattò David Rubbo che aveva visto alcune mie immagini sui social. Poco dopo ci incontrammo e lo portai a vedere alcuni dei miei luoghi preferiti di prelievo. Gli parlai subito dell’idea del gruppo, che mai mi sarei sentito di aprire da solo. Fu solo grazie a lui e alla sua sterminata esperienza che mi sentii in grado di provare. Contattammo Andrea Cattabriga (che ancora non conoscevo) che ci incoraggiò nell’impresa e di lì a poco demmo inizio alle danze. Partimmo in tre amministratori, David, io e Nicola Cornaglia, autore di esperimenti estremi di grande interesse. Di lì a poco si aggiunsero anche Letizia Zanella (che a breve sbalordirà tutti a seguito di ciò che sta realizzando presso l’Orto Botanico dell’Università Tor Vergata) e Maya Berni, notevole coltivatrice di diversi generi di piante, fra le quali Mammillaria e Eryosice. Non siamo tanti e non ci importa, ammettiamo persone di una certa esperienza o comunque seriamente interessate all’argomento e disposte a mettersi in gioco. Non facciamo pubblicità.
Come sta andando questa esperienza?
Il gruppo è una grande soddisfazione. Finalmente ci si confronta apertamente su tutto e stiamo mettendo a sistema una serie di esperienze ognuna delle quali contribuisce a definire una sorta di metodo. Dunque si parla di terre dei tipi più disparati, di habitat, di acqua, esposizione, temperature e tutto quanto il resto. Per me una piccola rivoluzione. Ho imparato più cose lì in due anni che nei precedenti 20 di coltivazione tradizionale. Ci ho conosciuto anche te!
Marna, alberese, argilla, pomice… quali materiali consiglieresti a chi vuole creare un substrato “standard”, adatto ai cactus in generale senza diventare matto?
Posto che io ragiono davvero pianta per pianta, generalizzando e standardizzando si possono fare tre macrodistinzioni: per il grosso delle messicane va bene terra argillosa (30%) e pomice (70%). Per molte sudafricane quarzi, quarziti e sabbie silicee mescolati tra loro e per le Copiapoa granito e sabbie silicee. Io però non standardizzo niente.
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Semplicemente fantastico.