Sperimentare, osservare i risultati e correggere laddove è necessario. Solo così, nella coltivazione dei cactus come in moltissimi altri campi, è possibile imparare cose nuove, crescere e migliorarsi.
David Rubbo incarna perfettamente la figura del coltivatore curioso e coraggioso. Sperimenta in continuazione, non si accontenta dei “si dice” e trae conclusioni solo da ciò che ha testato personalmente. E non ama le vie di mezzo: o una cosa funziona come deve o ricomincia daccapo. E d’altra parte, per imparare nuove cose o per approfondire la conoscenza di cactus e succulente, non c’è niente come sperimentare. Sperimentare nuovi terricci, sperimentare diversi regimi di irrigazione, esporre le piante a temperature minime inferiori a quelle che solitamente si considerano tollerabili, esporre le piante a diverse tipologie di irradiazione solare. Naturalmente, sperimentare comporta non pochi rischi e questa pratica non è alla portata di tutti: non tutti, comprensibilmente, se la sentono di far correre alle proprie piante rischi o sperimentare alla cieca. E’ anche per questo che coltivatori come David Rubbo seminano piante in grande quantità: in questo modo è possibile coltivarne una parte in modo “convenzionale” e sperimentare sulla restante parte, così da poter anche effettuare un riscontro dopo qualche anno e vedere quale metodo ha funzionato meglio.
Nell’intervista che segue, la cui lettura consiglio a tutti i cactofili, David Rubbo ci mostra una prospettiva del tutto inedita riguardo all’approccio alla coltivazione, a base di curiosità, coraggio e continua voglia di superare i limiti di ciò che si è appreso sino ad ora grazie alla continua voglia di sperimentare. (…)
Le foto a corredo di questa intervista, così come quelle nella gallery finale, sono tutte di David Rubbo e ritraggono sue piante
David Rubbo vive nell’entroterra toscano, coltiva cactus da quasi trent’anni e, di fatto, con i suoi esperimenti ha contribuito a sgretolare credenze diffuse (e sbagliate) sulla coltivazione dei cactus. La sua è una passione che arriva da lontano: «Già da bambino portavo a casa talee delle piante che riuscivo a reperire, qualche crassulacea, Echinopsis e Opuntia. Quando conobbi l’Associazione cactofila italiana, a fine anni Ottanta ce n’era soltanto una, mi si aprì un mondo nuovo. In quel periodo non c’era Internet, le informazioni disponibili erano poche, principalmente esperienze di coltivazione di vecchi appassionati e pochi libri. Per molti anni ho seguito quelle che sembravano regole assolute, poi grazie anche alle esperienze di altri coltivatori ho cominciato a farmi qualche domanda e a pensare di testa mia». David ama in particolare le piante che reggono bene il freddo: «Ho una serra e alcuni bancali all’esterno, coperti o meno, che uso per piante resistenti alle intemperie. Coltivo prevalentemente cactus nordamericani (Messico e USA), da alcuni anni sono interessato a quelli che resistono al freddo come Sclerocactus, Pediocactus e generi simili».
Il tuo approccio alla coltivazione è unico: sei uno da “o tutto o niente” e sperimenti tantissimo. Come nasce questo tuo atteggiamento?
Dopo tanti anni passati a coltivare con i metodi tradizionali ho capito che tante cose non andavano bene. Piante che morivano e/o si deformavano con la crescita per esempio, oppure si macchiavano. Perché non riuscivano a crescere sane come in habitat? Ho cercato informazioni più precise su dove e come vivevano le piante, come la natura dei terreni, le temperature massime e minime, le precipitazioni. Mi sono accorto che si poteva migliorare replicando almeno parzialmente le condizioni di habitat. Non sempre la sperimentazione dà buoni risultati, ma anche riconoscere cosa si è sbagliato è utilissimo come indicazione per cambiare direzione, per evitare di ripetere gli stessi errori in eterno. Talvolta ad azzardare si possono avere belle sorprese, che ripagano del tempo speso a fare tentativi. Il fatto che ancora siamo in pochi a tentare modalità di coltivazione alternative complica ulteriormente le cose, sono poche le informazioni testate come valide. Però penso si possa migliorare, grazie anche al gruppo Wild su Facebook, dove ci confrontiamo in tanti.
Nel mondo cactofilo ci sono tanti pregiudizi e tanti concetti dati per assodati che tu tendi a smontare. Quali sono, a tuo parere, i preconcetti maggiori?
Ce ne sono tanti di concetti infondati o almeno discutibili. Vasi piccoli, terriccio “minerale” (in realtà non ho mai capito bene cosa sia, ma se fosse lapillo, pomice ed eventualmente un po’ di torba non è granchè), annaffiature scarse, ambienti chiusi per piante che vivono in luoghi freddi. Tutte queste cose, spesso, sono estremamente diverse dalle condizioni di habitat. Nelle zone di provenienza, le piante non vivono nello spazio angusto di un piccolo vaso, anche se il terreno è povero le radici si possono allungare molto. A proposito del terreno, se cerchiamo su Internet foto di habitat, anche senza essere dei geologi si capisce grossomodo la composizione; nella maggior parte dei casi terra povera e pietre e/o sabbia di varia misura. Lapillo e pomice non ci sono quasi mai, non è un caso. Poi ho notato che fornire caldo alle piante che vivono in luoghi freddi è deleterio. Al freddo, asciutte o bagnate a seconda della resistenza, le piante crescono meglio, alcune più lentamente, ma più naturali come aspetto e con meno problemi di parassiti e funghi, il che non è poco.
Una cosa che hai ampiamente confutato (e con te altri coltivatori esperti) è quella secondo la quale i cactus vorrebbero vasi piccoli.
L’usanza di usare vasi piccoli appartiene ai coltivatori del passato. Quando non c’era Internet le informazioni erano scarse, era difficile anche immaginare come vivessero i cactus in natura. Qualcuno aveva capito che potevano campare in lapillo, pomice e torba. Un substrato simile, troppo artificiale, per funzionare aveva bisogno di vasi piccoli e annaffiature oculate, altrimenti le piante perse per i marciumi potevano essere parecchie. Lo dico per esperienza, avendo usato questi materiali per tanti anni. Da quando ho cominciato ad aggiungere terra di campo o marna i risultati sono cambiati in meglio. Anche rocce e pietre friabili non porose aiutano molto. In realtà questi materiali sono abbastanza simili a quelli di habitat, annaffiature abbondanti e piogge anche prolungate sono solitamente utili e ben tollerate. L’uso di vasi sovradimensionati permette un maggior sviluppo radicale: quello è lo scopo. In sintesi credo che l’uso di vasi grandi giovi alle piante se il substrato è valido, se invece il substrato è scadente i vasi piccoli offrono maggiori probabilità di sopravvivenza. Inoltre, una volta veniva consigliato di usare vasi di coccio per le piante più delicate. Anche questo non torna, dipende sempre dal terriccio. Personalmente uso tutti vasi di plastica, anche di misure relativamente grandi, sui 15 cm o più. Specialmente nelle misure piccole il coccio non fa bene alle radici, quelle sottili aderiscono alle pareti e si bruciano. Il materiale migliore, a vedere come ci crescono le piante, sarebbe il polistirolo espanso, cassette tipo quelle per mozzarelle o per il pesce vanno benissimo per molte piante giovani; asciuga prima della plastica, isola dagli sbalzi termici, le piante non hanno limiti all’espansione delle radici e crescono più veloci. Come svantaggio, il polistirolo è poco durevole e non si trovano facilmente misure piccole, adatte a poche o singole piante.
Sperimenti molto anche sui materiali. Puoi raccontarmi qualcosa su quello che hai imparato dai tuoi test?
Confesso di essere un po’ malato per le miscele di terriccio e a volte esagero dando peso a piccole differenze nella composizione… Comunque, annoto dettagliatamente tutto ciò che faccio in modo da poter riprodurre le miscele che danno i risultati migliori al confronto con le altre. Non mi piace l’approssimazione. Su tante cose non ho risultati definitivi, quindi continuo a fare test, ma ho imparato che non esiste un materiale che funziona bene in purezza e anche quelli che funzionerebbero male se in quantità eccessiva possono essere utili o quantomeno tollerati se in modiche quantità. Per esempio la marna esiste di tipi diversi che magari danno risultati diversi, ma quella che uso io va bene fino al 50% massimo per alcune piante, per altre piante al massimo al 20%. Quindi sono portato a fare miscele abbastanza complesse, composte di più materiali in proporzioni variabili. Oltre a marna e terra di campo di vari tipi, uso rocce varie (ad esempio pelite o alberese), ghiaino grossolano, quantità variabili di pomice, eventualmente lapillo e torba (non tutti insieme solitamente). In casi particolari anche gesso, sabbia silicea e carbone macinato. La coltivazione wild si può intendere in tanti modi. Personalmente nelle miscele di terriccio cerco un compromesso che funzioni, non la riproduzione esatta, ammesso e non concesso sia possibile, dei terreni di habitat. Ci sono sicuramente dei fattori che ignoriamo e che hanno un loro peso (crosta biologica, eventuale simbiosi con microbi del terreno, ecc). Volendo si può riprodurre lo strato superficiale per estetica, ma prima conta la salute delle radici, parere personalissimo.
So che fai molti test “estremi” invertendo i regimi di coltivazione di alcuni generi, tenendoli all’aperto in inverno e lasciando piante alla pioggia. Quali sono i generi che hai verificato essere più adatti per questo regime di coltivazione?
Prima di lasciare le piante alle intemperie mi informo su dove e come vivono, quindi i tentativi che faccio sono mirati a quelle piante che in qualche modo sono abituate a trattamenti che possono sembrare estremi, ma che in realtà non lo sono. Da decenni siamo abituati alle classiche messicane da bagnare in estate e a secco in inverno, ma non ci sono solo loro. Molti cactus degli USA per esempio ricevono pioggia e neve in inverno, con temperature anche basse, alcune sotto -20°C. Varie Opuntia, alcuni Echinocereus, Escobaria ed Echinomastus, parecchi Sclerocactus e Pediocactus. Sono tante piante diverse, spesso poco considerate in coltivazione perché hanno fama di essere “difficili”. La difficoltà, secondo me, nasce prevalentemente dall’astenersi nel rispettare i loro cicli, ben diversi da quelli dei cactus classici messicani. Piante come gli Sclerocactus non perdonano errori di questo tipo, altrimenti possono essere accessibili.
Ho fatto diversi test e mi sono fatto un’idea sulle piante più adatte a vivere fuori, ma non escludo se ne possano aggiungere altre. Alcune piante messicane lasciate scoperte alle intemperie nel periodo vegetativo crescono molto meglio che in serra. Ad esempio Ariocarpus, Pelecyphora, Echinocactus horizonthalonius e parryi in pieno sole e pioggia hanno un colore più simile a quello naturale, forma più schiacciata e senza lana all’apice. Nessuna pianta mi è morta, neanche dopo pioggia prolungata. Eppure sarebbero tutte piante da bagnare col contagocce, secondo la tradizione. Qualcosa non torna… Alcuni miei Echinocereus degli USA vivono allo scoperto da almeno tre anni, al pieno sole ed esposti a tutte le intemperie. L’inverno passato hanno sopportato temperature fino a -10°C con terriccio completamente inzuppato e nessuno è morto. Adesso hanno il muschio sul terriccio.
L’inverno 2014-2015 lasciai un paio di Sclerocactus parviflorus allo scoperto da fine ottobre a fine maggio dell’anno successivo, sette mesi: nessuno lo consigliava però provai comunque. Non morirono, anzi avevano un aspetto sano. Poi li spostai al coperto nel periodo più caldo, prevalentemente all’asciutto. Ho ripetuto questo regime gli inverni successivi aggiungendo altre piante simili, qualcuna è morta, ma erano quelle già compromesse all’origine. Ho imparato che per fare questi lavori ci vogliono piante sane. Le prime piante sono vive e adesso sono al loro quarto inverno allo scoperto. Gli altri Sclerocactus e Pediocactus vivono sotto una tettoia trasparente aperta ai lati, dove prendono tutto il freddo che fa, ma posso decidere io quando bagnarli. Vista l’esperienza con le piante allo scoperto, li bagno tutti in inverno, anche le semine di pochi mesi, cominciando da circa metà dicembre. Nessun problema con terriccio bagnato e temperature minime intorno -6/-7°C. Poi ci sono le Opuntia, perennemente alle intemperie. Alcune non temono nulla, ma con loro non ho scoperto nulla di nuovo.
Quali generi ti hanno dato le maggiori soddisfazioni in termini di sperimentazione?
Mi appassionano le piante cosiddette difficili da coltivare. Nel 2010 seminai per la prima volta alcuni Sclerocactus, poi ho continuato gli anni successivi. Li ho seguiti molto e con molta fantasia, vista la scarsità di notizie sulla loro coltivazione. Se si cercano informazioni la cosa più frequente sono le lamentele sulle difficoltà, senza nessuna ipotesi sul perché. Un po’ poco per i miei gusti. La soddisfazione maggiore è stata farli vivere partendo quasi dal nulla.
Generi che non ti interessano per niente ce ne sono?
Certo, anzitutto non coltivo piante che non tollerano un po’ di freddo e umidità stagnante. Non mi piacciono generi anonimi come forma, tipo Melocactus, Discocactus (che hanno anche il primo problema), molte Mammillaria e Coryphantha, quelle molto simili tra loro. Poi le colonnari e gli “artefatti”, come ibridi, innesti, variegate e cose simili, che non hanno niente di wild. Euphorbie e succulente in genere non le coltivo. Unica eccezione, mi piacciono gli Pseudolithos, li ho coltivati per alcuni anni, poi ho quasi smesso perché sono troppo esigenti per me.
Il tuo concetto di coltivazione wild?
Il concetto di wild mi pare abbia tante interpretazioni a seconda dei vari coltivatori. A me interessa il risultato, l’aspetto delle piante, simile il più possibile a quello naturale. Anche piante relativamente comuni, il raro viene dopo. In natura si possono trovare piante sane o macchiate/ustionate, ma quelle deturpate per coltivazione errata non hanno un valore aggiunto per me. Come terriccio faccio dei compromessi, se i risultati sono buoni ammetto tutto. Sull’ambientazione ho poca esperienza, ci lavorerò di più in futuro, per ora mi limito talvolta a ricostruire lo strato superficiale; raramente lo ricostruisco in toto, da cima a fondo. Non ho pregiudizi verso l’uso di prodotti chimici, uso regolarmente fungicidi, insetticidi, concimi, sempre che non deformino le piante.
Mi interessa capire meglio quali piante e con quali modalità possono essere coltivate alle intemperie oppure in piena terra, credo ci sia ancora parecchio da sperimentare. La coltivazione wild la intendo anche come esposizione alle intemperie, se e quando si riproducono le condizioni di habitat. A volte basta poco per avere risultati diversi. Ho provato con alcune piante a fare un test. Stesse cure (stessa semina, rinvasate contemporaneamente in terriccio identico, ecc), unica differenza l’esposizione alle intemperie per due stagioni vegetative.
La pioggia prolungata, il pieno sole e l’aria aperta riducono la crescita in altezza delle piante, asportano la lanugine apicale e induriscono l’epidermide; in sintesi le piante assumono un colore e un aspetto generale molto più simile a quello di habitat (si veda il raffronto nelle tre foto pubblicate nel blocco di testo di questa risposta).
So che hai provato anche a mettere alcune piante in piena terra. Quali e con quali risultati?
Ho provato a piantare in una scarpata ricca di pietre e ben esposta alcuni Echinocereus. I primi ci stanno da un anno e mezzo. Le piante non hanno ricevuto cure dopo il trapianto, qualche pianta è morta ma parecchie stanno bene, anche se crescono lentamente. L’inverno passato la temperatura minima è arrivata fino a -10° e questa estate per oltre quattro mesi non è piovuto. Più wild di così è impossibile!
Probabilmente se ne possono aggiungere altre. Un angolo di deserto che non richiede cure mi pare una bella soddisfazione.
Il tuo test più riuscito?
Sclerocactus allo scoperto in inverno, sconsigliatissimo da tutti quelli ai quali ho chiesto. Però se le piante stanno bene e sono sopravvissute a tre inverni tanto sbagliato non era, non può essere solo fortuna.
Il tuo esperimento più disastroso?
Gymnocalycium in un terriccio scadente, composto da pomice, pelite e terra di campo. Peggio era impossibile fare, le piante sono cresciute poco e male, qualcuna è morta. Ho poca esperienza con loro, era il primo test ed evidentemente è fallito. Comunque utile per fare nuovi tentativi.
Per chiudere, raccontami come ti organizzi per la semina.
Considero la semina molto importante perché offre la possibilità di ottenere un buon numero di piantine a costi contenuti, da sottoporre a vari test e comparazioni per valutare i migliori risultati possibili. Ho seminato per la prima volta nel 1991, col tempo ho studiato come fare meglio. Per quanto riguarda il mio metodo, ho scritto un articolo su Acta Succulenta, rivista 2. 2014, il download è gratuito. Tratta di semina indoor, ma tante cose vanno bene anche per la semina a luce e calore naturali.
Le foto a corredo di questo articolo sono tutte di David Rubbo e ritraggono sue piante.
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Ecco alcune piante coltivate da David Rubbo e sulle quali ha impiegato il suo tempo per sperimentare. Cliccare le foto per ingrandirle.
In tanti anni non ho mai letto tante cose così interessanti e stimolanti. Grazie aspetto con trepidazione le prossime
Sono contento che ti sia piaciuta l’intervista. Conoscendo David Rubbo sono sicuro che ne sarà contento anche lui 🙂
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molto molto interessante dopo aver letto di tutto di più sui rinvasi, sul tipo di terriccio, vasi ..tutto sempre molto schematico , credo che tutto quello che ho letto sia anche sensato oltre che comprovato. Grazie ..sempre articoli interessanti.
Interessantissimo ho imparato cose nuove e mi è piaciuta le informazioni di questo articolo i miei complimenti grazie x le informazioni
Ciao, ti volevo solo segnalare che il link all’articolo di David su Acta non dirige verso quella pagina…Per lo meno a me, non so se anche ad altri.
Molto valida l’intervista!
Ciao e grazie infinite per la segnalazione: ho controllato ed è vero. Devono aver tolto il link o hackerato la pagina… Ho tolto il link dal mio articolo. Ti ringrazio! Nel caso trovassi qualsiasi altro problema non esitare a scrivermi!